Ciao Marco! La prima domanda che ti pongo in questa intervista ti è stata già svelata in precedenza, quindi
forse sei già preparato: che cosa significa il tuo nome?

Devo dire che in realtà non sono così preparato, ma ricordo che da piccolo, nelle tabaccherie o nei negozi di souvenir avevo letto su uno di quei gadget personalizzati con i nomi sopra che Marco derivasse da Marte.
Voglio raccontarti però di un aneddoto su come avrei potuto chiamarmi se a decidere fosse stato mio padre. Sono nato in Calabria, dove come in altre regioni d’Italia, esiste la tradizione di dare ai figli i nomi dei nonni. Poiché la mia famiglia non era così tradizionalista, mio papà propose di fare l’unione di due nomi
Annibale (nonno paterno) e Gennaro (materno). Ora mi chiamerei Gean se i miei avessero deciso per questa opzione, ma mia madre disse di no.

Dove sei nato esattamente?

La città in cui sono nato è Crotone.

Tu però abiti a Genova ora. Senti di appartenere più a Genova o a Crotone?

Se dovessi scegliere, direi Genova, dove abito da più di dieci anni ma sono cresciuto in provincia di Savona. Non ho vissuto molto la Calabria ma in particolare sono legato a Zinga, una piccola frazione di meno di duecento abitanti, dalla quale provengono i miei genitori. Là ho passato molti momenti belli ed è un posto
che mi ha dato tanto in contrapposizione alla vita in città.

Ti senti legato alla tua città? Ci sono luoghi che ti rappresentano o al contrario che non lo fanno?

Sono legato ad un tratto molto distintivo di Genova, ovvero il fatto che dal porto non si estende in orizzontale, ma inizia subito a salire. È una verticalità che diventa peculiare dal punto di vista urbanistico: sei già in collina a due passi dal centro. Penso di essere molto affezionato a questa particolarità perché è
bellissimo vedere il panorama del mare dall’alto delle montagne, sono due paesaggi non sempre così vicini.
Devo dire che però di Genova, dal punto di vista umano, mi rappresentano due realtà con cui lavoro e di cui faccio parte, che sono le associazioni Nuovi Profili e Ripercussioni sociali. Nuovi profili è nata ai tempi in cui studiavo all’università, l’abbiamo fondata insieme a dei ragazzi di origine straniera. Ripercussioni sociali
invece è nata con l’intento di fare musica e compiere azioni di cittadinanza attiva. Ad esempio, diamo la possibilità ai rifugiati di provare con gli strumenti che mettiamo a disposizione nelle nostre sale per usare la musica a scopo sociale.

Se ti dico “senso di appartenenza” a cosa pensi immediatamente?

Penso che le appartenenze siano tante. La prima cosa che mi viene in mente è l’appartenenza al genere umano. Riguardo all’Italia, io sono dalla parte opposta rispetto al nazionalismo, credo più nel cosmopolitismo. A livello culturale, penso che la storia italiana sia una somma di tutte le stratificazioni storiche e culturali che si sono sedimentate e mischiate nella penisola. La ricchezza dell’Italia sta nella molteplicità delle lingue che la compongono: i dialetti, ma anche le lingue delle minoranze etnolinguistiche come quella degli Arbërëshë, dei croati molisani, come il franco provenzale, il tedesco o il catalano nelle regioni a confine. Sono tracce ancora visibili di storie. È bello inoltre sentire parlare l’italiano in accenti diversi, come siamo abituati da quando l’Italia è diventata un paese di immigrazione accogliendo comunità da diverse parti del mondo.

Sì, è bello sentirlo parlare anche con accenti regionali italiani da ragazzi di origine straniera che qui sono nati e cresciuti, come nel mio caso. Per noi il concetto di senso di appartenenza è estremamente ampio e importante.

Invece che cosa vorresti fare da grande, qual è il tuo sogno?

Questa domanda non me la facevano da tanto perché pensavo di essere già cresciuto! (ride) Devo dire che ho smesso di pensarci da un po’ di tempo. Ho scelto più di dieci anni fa di lavorare con la musica quando sono stato invitato in una scuola dell’infanzia a fare un’attività con i bambini. Ho scelto di investire in questo lavoro anche se non corrisponde ai miei titoli di studio. Per il momento sono soddisfatto di quello che sto facendo, anche se a livello di pianificazione della vita non è il massimo. Ogni anno è una sfida, non è mai sicuro, un’incognita.

In futuro ti vedi viaggiatore?

Mi piacerebbe, sono curioso di scoprire e incontrare persone. Penso sia importante vivere per qualche tempo in zone diverse. Sentirsi straniero aiuta molto. Ho vissuto per qualche tempo in Romania, in Marocco, in Spagna e in Libano. Sono state esperienze forti e faticose, ma mi hanno forgiato e mi hanno permesso di avere orizzonti culturali più estesi.

Cos’è la diversità per te? Che valore ha?

È una componente molto importante che contraddistingue ognuno di noi e permette di essere unici. Siamo tutti da scoprire, a mio parere. Io sono una persona molto curiosa e penso che il valore della diversità sia l’arricchimento che ti dà nel contatto con essa.

Invece quale tuo pregio o difetto ti fa sentire diverso dagli altri?

Scelgo una cosa neutra, i miei capelli. Ho degli strani capelli ricci e crespi in stile afro che mi fanno sentire diverso, ma anche simile a persone che vengono da paesi lontani. Esteticamente mi caratterizzano e rispecchiano il mio carattere.

Se potessi cambiare una caratteristica della società in cui vivi, quale cambieresti?

Vorrei ci fosse più uguaglianza. Penso che una delle più grandi ingiustizie sia la disuguaglianza, che sia economica, giuridica, quella dei diritti. Vorrei ci fossero possibilità più eque per tutti.

Immaginati tra 40 anni, dove vorresti essere? Ti fideresti delle nuove generazioni?

Se la salute me lo consentirà, spero di non lavorare più tra quarant’anni. Vorrei essere di supporto per le nuove generazioni. Penso che il ruolo degli adulti e degli anziani sia quello di affiancare i giovani. Mi è sempre piaciuto farmi raccontare le storie dagli anziani, perché per andare avanti bisogna conoscere anche il passato.

Finisci questa intervista con una frase che ti rappresenta.

Scelgo una frase di Eduardo Galeano, scrittore uruguaiano. È una frase sull’utopia

«Cos’è l’utopia? Lei è all’orizzonte. Mi avvicino di due passi, si allontana di due passi. Cammino per dieci
passi e l’orizzonte si sposta di dieci passi più in là. Per quanto cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve
l’utopia? Proprio a questo: a camminare».
Se posso aggiungere, mi piace molto anche l’equivalente del detto italiano “La speranza è l’ultima a morire”
in rumeno. I rumeni dicono Speranţa nu moare niciodată, ovvero “La speranza non muore mai”.