Piacere, sono Khadim. Allora Emmanuel, che cosa significa il tuo nome?
Emmanuel è un nome di origine ebraica, vuol dire “Dio è con noi”.
Il suffisso “El” finale che trovi in tanti nomi ebraici e cristiani significa “Dio”.
Cosa rispondi se ti chiedono da dove vieni?
Non so mai come rispondere a questa domanda, dipende da chi ho di fronte. Qui in Trentino, dove abito dasolo un anno, dico che vengo da Padova, avendoci vissuto a lungo. Se non è una risposta che soddisfa le aspettative delle persone, non è un mio problema.
Qual è il tuo paese di origine?
La mia storia è abbastanza complessa perché sono nato in Germania e cresciuto in vari paesi.
Sui documenti ho la cittadinanza congolese, ma il Congo non è il paese in cui ho vissuto di più.
Non riesco ad avere una cultura di riferimento, ne ho tante e diverse, ma per darti una risposta soddisfacente, direi Repubblica democratica del Congo.
In che lingua hai detto “ti amo” per la prima volta?
In tedesco.
Ti senti legato alla tua città? Ci sono luoghi che ti rappresentano o, al contrario, che non senti per
niente tuoi?
Mi rappresentano luoghi che mi fanno sentire al sicuro, in cui c’è inclusione di mentalità e di appartenenza.
L’Università di Padova è uno di questi. Non mi sento a mio agio dove non è ammessa l’inclusione, in generale.
Qual è il tuo piatto preferito?
Forse può sembrare strano: riso e fagioli. Lo cucinava spesso mia mamma e mi ricorda l’infanzia.
Sei contento di vivere in questo periodo storico? Ti senti appartenente alla tua generazione?
Le generazioni prima di noi avevano uno scopo comune ed erano una comunità, cosa che manca oggi.
Le uniche cose che condividiamo sono forse le Challenge sui social e a me questo fa riflettere molto.
Non mi sento in comunità con la mia generazione perché abbiamo perso i valori, un obiettivo. Abbiamo
perso la bussola e non sappiamo più dove stiamo andando!
Se dico “senso di appartenenza”?
Il senso di appartenenza è qualcosa di per sé buono, perché abbiamo bisogno di capire chi siamo. Il problema è che spesso è percepita come qualcosa di statico, quando in realtà è un processo di evoluzione durante tutta la vita.
Se a otto anni ti chiedono chi sei, dai una risposta, ma poi a venti o a sessanta non sarà la stessa.
Quando ti rendi conto che è un continuo cambiamento, non sei più costretto a dover proteggere l’appartenenza a tutti i costi. Se è statica devi difenderla, come la patria, la nazione.
Ti sei mai sentito parte di qualcosa?
Sono Co-fondatore di “Arising Africans”, mi sento parte dell’associazione ed è una bellissima esperienza.
Sento di appartenere a qualsiasi cosa io faccia, mi piace avere la mente impegnata. Sono come un vaso da riempire di conoscenze.
Che cosa vorresti diventare da grande?
Vorrei essere un buon padre ed essere felice del mio lavoro.
Cos’è la diversità per te?
La diversità per me è la pluralità degli esseri: non siamo tutti uguali, ma tutti diversi.
Io cerco di guardarla a 360 gradi e penso che si sviluppi in due sensi. C’è quella culturale, familiare, sociale, che ci arricchisce e ci avvicina. Poi ne esiste un’altra, che ci allontana gli uni degli altri, come quella di genere, ma non solo
Sì, la diversità si guarda spesso come un aspetto esteriore, ma concerne anche l’interiorità e per questo
è molto complicato darne una definizione univoca.
Ricordi qualche episodio particolare in cui la diversità ti ha permesso di raggiungere un obiettivo e di
superare un ostacolo?
Penso che siano le esperienze ad avermi aiutato a superare ostacoli, non la diversità in sé. Non so mai se le cose che sono riuscito a fare si riconducano al fatto che io sia nero o che io sia io. Ma io sono nero!
Ti ha mai condizionato il pregiudizio e come l’hai superato?
Il mio cognome è Mertens e quando andavo a scuola in Congo gli altri bambini mi prendevano in giro per questo. Ti dico solo che ho cambiato nome. Inoltre, ho vissuto un forte pregiudizio causato dalla guerra tra il Congo e il Ruanda. La mia famiglia ha dei tratti nilotici, dunque vengo spesso scambiato per uno del Ruanda. Ho vissuto due volte la negazione di appartenenza al Congo: a causa del mio nome e per l’aspetto. È un’esperienza forte essere rinnegato dal tuo stesso popolo. Questi eventi e l’essere stato sballottato tra più culture mi hanno permesso di costruirmi una corazza fortissima contro il razzismo e di capire che le persone sono diverse, che esiste la stupidità da una parte e l’accoglienza dall’altra.
Quali sono gli stereotipi presenti nella tua vita, come li affronti e superi. E secondo te vivremmo
meglio senza stereotipi?
Noi impariamo tramite gli stereotipi, ci servono. Il disegno di un albero ne è in realtà lo stereotipo che ci permette di pensare all’idea di albero. Non cerco di superarli: ne parlo e insegno ai giovani a cercare gli strumenti per comprenderli.
Qual è un tuo pregio o difetto che ti fa sentire diverso dagli altri?
Un mio difetto evidente è la tendenza ad essere troppo logico, razionale. Noi umani non siamo esseri razionali e questo diventa un limite a volte.
E un pregio?
Lo stesso.
Se potessi cambiare una tua caratteristica, quale cambieresti?
Cavolo, niente! Le caratteristiche positive mi piacciono, quelle negative mi aiutano a riconoscere gli errori e a migliorarmi.
Immaginati a 60 anni, dove vorresti essere e saresti fiducioso nei confronti delle future generazioni
A sessant’anni vorrei vivere solo di quello che mi serve, del necessario. Penso che le generazioni future non avranno il lusso di comprendere la ricchezza dell’essenziale ed è un limite della nostra umanità. Vorrei tentare di trasmetterne l’importanza ai giovani di oggi e dar loro alcuni strumenti per vivere in questo presente.
Concludi l’intervista con una frase che ti rappresenta.
“La diversità è ricchezza”.