Ciao José! Che cosa significa il tuo nome?

Io ho un nome lunghissimo: José Antonio Venancio Rivera. Il nome è spagnolo perché sono di origine peruviana. José sarebbe Giuseppe in italiano, che è un nome biblico, era il padre di Gesù, ed Antonio è sempre un nome cristiano.

Cosa rispondi se ti chiedono da dove vieni?

Allora io sinceramente, essendoci nato, dico Perù. Ho vissuto là per dieci anni, ricordo la mia infanzia. A chi ci tiene a saperne di più, dico appunto che sono peruviano e marchigiano, venendo da Fabriano, la città della carta. Insomma dipende da chi ho davanti.

Ti senti legato alla tua città? Ci sono luoghi della tua città che ti rappresentano o al contrario, che non
senti per niente vicini a te?

Ormai da dodici anni la mia città è Bologna. È una città che conoscevo sin da piccolo, ci andavo per visitare i miei parenti e forse è anche questo il motivo per cui mi ci sono avvicinato. Bologna è il luogo della cultura, è una città accogliente. Pur non essendo una metropoli, offre tantissime opportunità. Un posto speciale è il quartiere in cui abito, la Bolognina. Si trova vicino alla stazione ed è un quartiere multiculturale: c’è una piccola piazza che fa da snodo per tutti gli autobus e lì puoi trovare la famiglia pakistana, quella peruviana, ragazzi cinesi e filippini che vanno a giocare a basket, a volte anche vestiti con abiti tradizionali. Sento mio
anche il centro storico, la culla della cultura dove si trova la prima università d’Europa. Poi ci sono moltissimi posti da vedere, in particolare i portici, dove ti senti avvolto da una magica atmosfera anche quando piove – e non c’è nemmeno bisogno dell’ombrello.

Sei contento di vivere in questo periodo storico? Ti senti appartenente alla tua generazione?

Sì, sono contento. È vero che il nostro mondo sta cambiando anche in modo negativo, ma sento di appartenere a questo periodo storico e alla nostra nuova generazione. Abbiamo molti strumenti in più rispetto al passato per poter migliorare, dipende tutto da noi. Basta pensare al fatto che io e te ci siamo collegati oggi con estrema facilità, mentre ai tempi dei nostri genitori, immigrati tanti anni fa, era impensabile. Dovevano usare le cabine telefoniche per fare delle chiamate nel proprio paese o si scrivevano le lettere. Noi abbiamo tantissimo in più e bisogna solo saperlo sfruttare.

Se ti dico “senso di appartenenza”, a cosa pensi immediatamente?

Oltre alla mia famiglia? Be’, le famiglie fanno parte di una comunità. Nel mio caso non considero comunità solo quella del mio Paese d’origine, ma anche la comunità bolognese. Appartenere significa contribuire alla comunità ad esempio facendo volontariato.

Qual è il tuo sogno? Pensi di averlo già realizzato?

No, ancora no, sono un grande sognatore! Il mio grande sogno è quello di fare cooperazione internazionale, sono da sempre appassionato delle organizzazioni internazionali come l’Unicef. Insomma il mio sogno è di andare a lavorare in un contesto più grande.

Cosa pensi se ti dico senso di appartenenza?

A qualcosa che mi manca. Non mi identifico con nulla in modo completo. Vedo varie sfaccettature, diverse appartenenze che messe insieme fanno quello che sono. Sento di appartenere soltanto al mondo, in generale. La mia personalità è fatta di varie appartenenze, non si riferiscono a una cosa sola. Sentirsi parte solo di un gruppo sarebbe limitante.

Cos’è la diversità per te? Che valore ha?

Essere diversi ti dà degli strumenti per poter superare certe situazioni e poter sviluppare una capacità di analisi e spirito critico. La diversità ti aiuta a fare un po’ di autocritica ti aiuta ad analizzare meglio certi contesti e di conseguenza cerchi anche di superarli.

Ti ha mai condizionato il pregiudizio?

Il pregiudizio è sempre esistito, fa parte della natura umana. Ho sempre cercato di combatterlo, di superarlo.

Quali sono gli stereotipi più presenti nella tua vita? Come li affronti e/o superi? Secondo te, vivremmo
meglio senza stereotipi?

Ma sicuramente, io per esempio ho subito lo stereotipo del latino americano. Qualcuno pensa che siamo festaioli, arriviamo sempre tardi. Ma questo lo pensano anche gli svizzeri degli italiani, per dire. A seconda del posto in cui ti trovi, i pregiudizi cambiano: l’italiano che va in America è visto come “pizza, mafia e mandolino”. Sì, senza stereotipi naturalmente si vivrebbe meglio. Vanno superati, mai fermarsi davanti a un giudizio.

Quale tuo pregio o difetto ti fa sentire diverso da altri?

Sono molto solidale, mi piace aiutare chi ha bisogno. Questo può diventare anche un difetto perché così ho meno tempo per me, dedicandolo maggiormente agli altri. Alcune persone poi danno per scontato il tuo aiuto e la tua collaborazione e quando non ti rendi disponibile, talvolta ti vedono come una cattiva persona.

Se potessi cambiare una caratteristica della società in cui vivi, quale cambieresti?

Eliminerei l’egoismo che imperversa dappertutto in tutte le sue sfaccettature più negative portando a conflitti. Anche non rispettare l’ambiente è segno di egoismo verso la natura, gli altri, le nuove generazioni. Vorrei inoltre che ci fosse meno consumismo. La tendenza a pensare solamente a cose materiali crea un enorme divario: poche persone hanno tante cose, molte ne hanno poche. Ci vorrebbe più autocritica sul consumo.

Concludi l’intervista con una frase che ti rappresenta.

Concludo con una frase di Einstein: “Ci sono due modi di vivere la vita: uno è pensare che niente è un miracolo, l’altro è pensare che ogni cosa è un miracolo”. Questa è una frase che ti fa ragionare sul fatto che tutto dipende da come ti poni di fronte alla realtà. Bisogna essere positivi. E soprattutto cercare di dare il nostro piccolo contributo per migliorare la nostra società. Dal piccolo si fa un mare più grande.